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La prima volta che vidi Arrigo Dolso rimasi di sasso. Correva sul tappeto dell’Olimpico nostrano con movenze eleganti, leggere, sudamericane. Il particolare che mi colpì furono i calzettoni arrotolati sulle caviglie e mi ricordò Omar Sivori, l’eroe della mia infanzia. La sera a cena parlai a mio padre di questo giocatore esprimendogli tutto il personale piacere di osservarlo. In pratica Dolso aprì le porte all’immenso, futuro amore per il Grifone incarnando il giocatore fantasioso dalle finte accennate quanto decisive, dal correre quasi distratto, dal tocco micidiale e vincente. Dolso possedeva l’arte di un calcio visto come momento ludico, sul campo pitturava traiettorie, scolpiva passaggi, apriva il cuore dei compagni e dei tifosi. Probabilmente era la disperazione degli allenatori. Non aveva una posizione definita, non si poteva recintare, non gradiva margini rigidi. Dolso era il calcio e come tale volava dove voleva, si fermava per poi riprendere con passaggi dolci come zucchero. Andava in campo, basta, interpretava se stesso aprendo lo scrigno d’oro in dotazione solo a pochi eletti di mamma natura. Uno spettacolo, un film sempre nuovo, momenti ancora in primo piano, schegge che assomigliano a coloratissimi fuochi artificiali. Adesso che Arrigo ci ha salutati siamo più soli e meno felici. L’uccellaccio ha il compito di ricordarlo in maniera decisa nella trasferta di Muravera. Il popolo biancorosso è consapevole di aver amato un grande calciatore e di amarlo ancora. Se è possibile in maniera ancora più spiccata.

Giancarlo Mallarini