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Domenica scorsa, per la prima volta nella mia storia di tifoso, non ho esultato per una rete del Grosseto. Un tempo sicuramente sarei scattato, avrei alzato i pugni, avrei corso e urlato la mia soddisfazione, avrei cercato gli occhi complici e soddisfatti dei miei compagni, ma non ieri. La punizione di Demartis mi ha lasciato pressoché indifferente, quasi come se a tirarla non fosse stato un giocatore della mia squadra o come se mi fossi casualmente ritrovato spettatore disinteressato di un incontro qualunque, in uno stadio qualunque, in un campionato qualunque.
Mi sono portato dietro questa sensazione di “distacco” per tutto il resto della giornata, mischiandola ben bene a tutta l’amarezza e la delusione del risultato sportivo e, alla fine, l’ho dovuta affrontare. E’ veramente duro ammetterlo ma ho capito che la mia passione è stata uccisa. Ho capito che continuo ad andare allo stadio solo per abitudine, per routine, per la paura di affrontare la realtà: non avverto quasi più niente di tutto quello che ho provato durante tutti questi anni. La tensione che s’iniziava a sentire già qualche giorno prima della partita, aprire gli occhi la mattina dell’incontro ed essere con la testa già allo Zecchini, le mani sudate al fischio d’inizio, gli occhi che seguono freneticamente il gioco, la gioia o la disperazione per una rete segnata o subita, il cuore che spinge i giocatori in campo quando ti aspetti l’azione decisiva sono svaniti. Tutto questo è un ricordo sempre più sbiadito assieme al senso di appartenenza che quella maglia mi ha comunicato, alla soddisfazione che mi ha dato cantare per il Grosseto in qualsiasi stadio abbia messo piede, alla voglia incontrollabile di sacrificare tempo e famiglia per seguire la squadra ovunque si trovasse. Oggi, invece, la guardo giocare a due passi da casa in modo totalmente asettico e disinteressato ed il confronto mi lascia esterrefatto.
Come una storia d’amore che ti ha tolto il respiro e la ragione si spegne lentamente e diventa noiosa, grigia, scontata, la mia passione è svanita. Rimane solo un profondo affetto che però, da solo, non può bastare. Il sogno derubato e infranto dei play-off, la retrocessione, il calcio scommesse, i tira e molla estivi di Camilli, lo spettacolo di uno Zecchini sempre più deserto, la Curva Nord svuotata e spaccata sono solo alcuni dei problemi che ci hanno, piano piano, consumato. La consapevolezza sempre più profonda di vivere in una città che, sostanzialmente, se ne frega di tutto, vive le mode, non ha radici, spirito di appartenenza e orgoglio hanno fatto il resto. L’amarezza per la morte dell’U.S. Grosseto per mano di chi l’aveva cresciuta e le speranze di riscatto stroncate dall’odierna Società hanno dato il colpo finale. Il sogno di una rinascita italo-americana aveva stregato un po’ tutti ed anche i più scettici, in cuor loro, speravano davvero che la favola potesse diventare realtà. Una città intera aveva risposto presente, carica, ancora una volta, di sogni, aspettative e fiducia. Quella fiducia è svanita un poco alla volta e ha portato ad un isolamento sempre più netto della squadra dalla città, dalle istituzioni e, soprattutto, dai tifosi.
Questo Grifone, ora, è veramente solo, rinchiuso in gabbia e tenuto fortunosamente in vita proprio da chi ha fatto e detto di tutto per strapparlo dalla sua terra e dalla sua gente, riuscendoci perfettamente. Ora è davvero così tristemente lontano che anche chi lo ha accudito, coccolato e difeso durante questi lunghi anni lo sta, pian piano, perdendo d’occhio. In questa situazione non esistono vincitori dalla facile ironia ma solo perdenti. Non abbiamo perso un incontro ma un sogno sacrosanto, quello di essere liberi di identificarci in una maglia e in un simbolo. Non ci resta che aspettare che qualcuno apra quella gabbia e liberi l’amato pennuto. Sono convinto che in qualsiasi condizione e in qualsiasi categoria quelli che ci sono sempre stati saranno nuovamente lì ad accoglierlo e ad aspettarlo. Non così però, non a questi patti, non oggi …

Giacomo Spinsanti