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Li ho osservati fino alla fine.
Fino a quando non sono spariti dentro gli spogliatoi.
Solo dopo ho iniziato a festeggiare.
L’ho fatto in segno di rispetto.
Una specie di piccolo tributo.
Ne sentivo il bisogno.
Anche Simone, nelle ore successive e senza che io gliene facessi accenno, mi scrive che gli è dispiaciuto.
Sottolineando il fatto che il Gambassi è stata, nell’arco del campionati, una delle due o tre Società più corrette e ospitali.
Sono partito dall’epilogo della giornata di ieri per dare l’onore delle armi all’avversario, seguendo una scaletta di priorità assolutamente personale.
Tutto quello che è successo prima è il “viaggio”.
Anche ieri l’ennesima conferma che è la parte più bella.
Il paesaggio che per tutto il tempo scorreva aldilà dei finestrini era incantevole.
In primavera il verde viene squarciato da improvvise macchie di colore.
La natura, più mi allontano da Roma, più prende a poco a poco il sopravvento.
Superba e vanitosa, credo che se potesse si farebbe selfie a nastro come non ci fosse un domani.
La brigata con cui viaggio è spensierata, a tratti guascona.
Il chiacchiericcio è buono e abbondante come le portate della trattoria dove ci fermiamo a pranzare.
Ma la posta in palio oggi è importante e anche se facciamo di tutto per non pensarci, più si avvicina il momento e più i silenzi diventano lunghi e nei volti si intravedono ombre di tensione.
Lo stadio è in mezzo alla campagna, il campo è veramente piccolo e la presenza di tifosi discreta.
Nell’undici titolare schieriamo molta emozione, un po’ d’esperienza ma soprattutto parecchia angoscia.
La partita si sblocca ad una ventina di minuti dalla fine.
Quello che invece non si è sbloccato, perché lo ha già fatto da molto tempo, è il marcatore.
Sentenza.
Mattias Vegnaduzzo.
Ancora una volta grazie, gaucho.
Quindi portiamo a casa l’accesso ai playoff.
Obiettivo minimo di una stagione che oltre a sembrare senza fine ci pone davanti l’ennesimo bivio.
Stavolta però il primo, spero, di una serie senza più appelli o esami di riparazione.
Chi sbaglia è fuori.
Mi diverto, mi diverte.
Forse sarò un pazzo, anzi molto probabilmente senza il forse, ma questo calcio è “il calcio”.
Il mio calcio.
Quello che assomiglia di più al mio vissuto, alla mia gioventù.
Un mio amico ieri mi ha scritto: “A volte incontravi un campo in pozzolana. Una nube di pulviscolo che con il caldo ti seccava la gola. Il sudore che ti rigava il volto e si impastava con la polvere. Non c’era verso di respirare bene. Ma non ci pensavi perché avevi un solo scopo. Vincere. O comunque provarci, per uscire dal campo sempre e comunque a testa alta, fiero di te stesso. Mentre dentro di te una voce diceva: ho fatto il massimo.”.
Il mio calcio.
Qui l’ho ritrovato.
Ultimo baluardo a difesa di valori dal sapore antico.
Fiero di esserci.

T&GO

Roberto Bongini