“A me non piace fare nomi, e quindi anche stavolta io non lo Raito farò.”
Così scrissi un anno fa in uno dei miei pezzi, giocando con le parole per sottolineare quello che per me è il giocatore che più incarna il mio modo di intendere il calcio.
Una decina di giorni fa, era un venerdì sera, mi trovavo insieme a mio figlio ed alcuni amici a mangiare un boccone in un locale di Grosseto.
Mentre eravamo in fila per l’ordinazione mi accorgo che poco più avanti di noi c’era Simone Raito.
Mi sono messo ad osservarlo, anche perché l’altra persona che valeva la pena osservare si trovava dietro di me, ma era accompagnata da un primate peloso che superava abbondantemente il metro e novanta.
Dove ero rimasto?
Ah si, stavo osservando Simone e forse lo avrei osservato anche se fosse stato un semplice sconosciuto.
In mezzo ad una coda, più o meno statica, di persone impegnate in chiacchiericci o con la testa china sullo smartphone, lui era l’unico che risaltava, non stava fermo un secondo, era come morso da una smania interiore.
Ma la sua non era una fretta impaziente, piuttosto un’innata inquietudine scolpita nei suoi cromosomi.
Un quarto d’ora di fila vissuta in costante moto perpetuo.
Poi arrivato alla cassa e fatta l’ordinazione si è allontanato con il suo passo molleggiato, accompagnato dal caratteristico ciondolio in avanti della testa (mio figlio la chiama “andatura di piccione”).
Un personaggio!
Mentre sparisce tra i tavoli lo immagino da piccolo che osservava la madre, dal basso verso l’alto, a colloquio con i professori, che non perdevano occasione per sottolineare la eccessiva vivacità del bambino.
Riusciamo a fare l’ordinazione anche noi e ci troviamo un tavolo appartato, lontano dal vocio delle casse.
Mentre aspetto le portate esco a fumari una sigaretta anche con l’intento di fare una telefonata alle donne di casa che questa volta sono restate a Roma.
Accendo la sigaretta, cerco il numero in rubrica, alzo gli occhi e mi ritrovo praticamente faccia a faccia con Simone che era fuori in attesa anche lui delle sue ordinazioni.
Non c’ho mai parlato direttamente e ho sempre avuto il desiderio di esternagli la mia stima per il modo che ha di interpretare il suo ruolo in campo.
Le donne di casa posso aspettare, faccio due passi e sono di fronte a lui.
– Ciao, sono Roberto e tu sei un guerriero.
I cinque, forse meno, minuti successivi sono l’esatto contrario della citazione di Mr. Wolf in Pulp Fiction, io che cerco di sintetizzare (lo ammetto, cosa contro natura per un tipo come me) la mia ammirazione e lui che, con mia sorpresa, fa altrettanto per il modo in cui scrivo.
Cinque minuti in cui non sono riuscito a catturargli lo sguardo per più di due secondi consecutivi.
Un vulcano.
Vivace, iperattivo, energico, uno vero, schietto, senza maschere o filtri.
Coraggioso e, come tutti i coraggiosi, un po’ folle.
Come in campo, così nella vita.
Uno che non si risparmia mai.
Uno incapace di fare calcoli.
Uno che non lotta mai per un compenso.
Uno che conosce solo un modo per fare le cose: dare sempre tutto se stesso.
Vedi Simo, ieri quando ti ho visto restare a terra, dopo il contrasto, ho capito subito che saresti stato sostituito.
Tu appartieni a quella tribù di giocatori che non conosce simulazioni.
La tua stirpe è leale come i grandi guerrieri della storia e della letteratura che hanno accompagnato le mie letture d’infanzia.
Si è vero, me lo dicono anche gli amici, io ogni anno ho sempre i miei preferiti.
Quelli che, quando entravo in campo, avrei voluto sempre al mio fianco.
Quelli che vedendoli giocare mi rendo conto che danno sempre il 100%.
E questo per un tifoso è garanzia di rispetto.
Rispetto per quella maglia dalla storia secolare che in molti continuano a bistrattare o ancora peggio ad ignorare.
Il mio grazie per te Simo è interminabile e la mia gratitudine inesauribile.
Oltre a dirtelo ci tenevo a scrivertelo.
Ciao combattente, rialzati e sbrigati a tornare.
Questo esercito ha bisogno di te.
T&GO