Per caso qualche sera fa sono incappato nella parte finale di un’intervista a Maradona.
Era un passaggio interessante, forse l’unico, perché dopo è stato tutto un naufragare in un mare di banalità e di demagogia.
La domanda che mi ha colpito era se, anche per lui, come per l’opinione comune, il gol del secolo era quello fatto all’Inghilterra nel mondiale di Messico 86, gol che dette all’Argentina l’accesso alle semifinali di un torneo che alla fine la vide vincitrice indiscussa.
Per intenderci, il gol in cui seminò avversari partendo dalla sua metà campo fino ad arrivare a depositare abilmente, con un tocco morbido e beffardo, la palla nella rete anglosassone.
In quello che è riconosciuto nel Mondo come lo sport di squadra per eccellenza, in quella che è la sua manifestazione più importante, in quella che è la competizione più rilevante della Terra, Maradona vince da solo, da solo contro tutto e tutti, sale sul trono dell’Olimpo del calcio e tutto assume significati più grandi di lui.
Qualche anno prima, quattro per l’esattezza, c’era stata la guerra delle Malvinas.
Degli isolotti poco più grandi di uno scoglio, ma dall’importanza strategica fondamentale per quella che allora e ad oggi è la terza/quarta potenza Mondiale, l’Inghilterra appunto.
Morirono quasi mille giovani, di cui circa settecento nativi dell’Argentina, che dovette, suo malgrado, chinarsi allo strapotere bellico e politico della Gran Bretagna.
Quella vittoria calcistica, si capisce bene, assunse un’importanza che andava ben oltre quella sportiva, Maradona divenne un specie di eroe nazionale.
E’ già capitato altre volte che lo sport abbia sconfinato in un significato più alto.
Da Jesse Owens che, alle Olimpiadi di Berlino 36, vinse 4 ori sotto lo sguardo incredulo di un vilipeso Hitler; ai pugni chiusi guantati di nero di Smith e Carlos che, alle Olimpiadi di Messico 68, vinsero oro e bronzo sui 200 metri piani.
Ma senza andare a scomodare i miti del passato, basta aspettare le prime note dell’inno scozzese, in una qualsiasi partita di rugby contro l’Inghilterra, che si può scorgere nei loro occhi l’orgoglio patriottico, che corre su quel filo sottile, che riconduce al suono delle cornamuse che fecero da colonna sonora alle dure guerre d’indipendenza scozzesi del 1300, di cui uno dei protagonisti indiscusso fu Sir William Wallace, altrimenti detto Braveheart.
Per prevalere nello sport, a qualsiasi livello venga praticato, è una questione di motivazioni, credo un po’ come nella vita.
Sono quelle che danno quel qualcosa in più vincere sugli altri, sono quelle che fanno sopravanzare di un centimetro l’avversario, sono quelle che fanno raggiungere il gradino più alto, sono quelle che fanno la differenza.
Le motivazioni sono fatte del metallo più pregiato, l’oro.
Ho sentito quattro sue interviste, l’ho ascoltato e l’ho visto con i miei occhi condurre la squadra dalla panchina.
Parla di moduli e di uomini, muove le pedine in campo e dirige la sua orchestra di gioco, tutto con esperienza e sicurezza.
Ma questo non sarebbe bastato a colpirmi in modo particolare, almeno non fino al punto di stuzzicarmi la penna.
Quell’uomo personifica la motivazione.
E’ motivazione in carne ed ossa.
Può condurci distanti, può svezzare i più giovani e rilanciare i più anziani.
Può trasformare un impigrito giocatore di playstation in uno scaltro pirata.
Tornerà a far battere i cuori più polverosi.
Torneremo a sentire rumore di denti digrignati.
Quell’uomo ha le caratteristiche del condottiero, portatore sano di motivazioni.
Quell’uomo per noi è oro.
Quell’uomo è il nostro Braveheart.
Quell’uomo è…Sir Antonello Cuccureddu.
T&GO