Decido di vederne una dal gabbiotto.
Mi stuzzica l’idea di disturbare Giancarlo e Giacomo mentre fanno la radiocronaca.
Poi la partita e questo è quello che mi resta.
Un arbitraggio, come si diceva una volta, all’inglese che non mi disturba affatto.
Un vento che per lunghi tratti ha condizionato la partita.
Complice, forse, anche delle due occasioni create dal Rieti.
Un terreno di gioco che, palla a terra, non aveva nulla da invidiare all’orto del mio povero nonno.
Un secondo tempo con quattro attaccanti in linea ad affollare ulteriormente un’area di rigore in cui già non passava uno spillo.
Tanta volontà ma scarsa lucidità.
A fine partita fischi per i nostri e applausi per gli avversari.
In tarda serata l’esonero di Mister Giacomarro.
Questo il ‘bignami’ della pagina di storia scritta ieri dal Grifone.
Un capitolo che si chiude e uno nuovo che, da oggi, inizieremo a scrivere.
Ma la domanda che mi ronza in testa è: cosa vuol dire essere tifosi?
È giusto fischiare la propria squadra dopo una partita come quella di ieri?
È giusto applaudire gli avversari?
È giusto essere già convinti che, per quest’anno, è tutto finito?
È giusto anteporre egocentrici personalismi di tutti i generi (uno su tutti quello dell’io l’avevo detto) al sentimento disinteressato del vero tifoso?
Io non sto dalla parte della società, non sto dalla parte della squadra, non sto dalla parte del Mister e soprattutto non sto dalla parte mia.
So solo una cosa, e la so bene.
Ieri quello che più mi è mancato è stato non essere in Nord, vicino a quei ragazzi.
È inutile provarne altre, non ci sono alternative a quel modo di essere tifosi.
O almeno io non ne conosco.
Quei ragazzi sono l’unica cosa vera che è rimasta nel calcio.
Superstiti e guardiani di una mentalità in via d’estinzione.
Ripeto.
Superstiti e guardiani.
T&GO