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Sono al bar e ordino un caffè. Mi frugo distratto nei pantaloni in cerca di qualche soldo. Dalla tasca posteriore, con un gesto meccanico, tiro fuori un pezzo di carta spiegazzato e scolorito.  Lo apro incuriosito e sopra c’è scritto “Curva. Stagione 2015/2016”: un leone stilizzato dai colori gialloblu mi ringhia contro nell’angolo in alto a destra mentre, in basso, una placida pecora fa bella mostra di se contro un arco tricolore.

Avverto un istintivo disagio, involontario e fulmineo. Realizzo che nella fretta della mattina ho fatto confusione: i pantaloni che ho addosso sono quelli di domenica scorsa. Li guardo meglio: sono spiegazzati e poco presentabili. Ci passo sopra con una mano e li sento ancora zuppi di un’acqua che non ne voleva sapere di smettere. I ricordi iniziano a scorrermi in testa. Vedo i pullman posteggiati sotto la curva ospite, vedo gli ombrelli, le sciarpe, i colori e le pozze di fango. Sento la mia gente che si chiama quando si passa vicina, quasi scontrandosi, perché resa irriconoscibile da cappucci, sciarpe e cappelli. Sento i cori, le urla e i sussulti della Nord in trasferta. Ripercorro i gradoni ad uno ad uno e mi giro intorno dove c’è solo biancorosso, ci sono solo bandiere zuppe che fanno fatica a sventolare. Guardo le facce che mi circondano, saluto chi conosco meglio, mentre sorrido timidamente a chi c’era prima di me e con cui ho meno confidenza. La curva, con il suo entusiasmo, mi spinge a guardare avanti verso un acquitrino che dovrebbe essere il campo. Undici maglie rosse si danno tremendamente da fare per riaprire un campionato che ci sta sfuggendo di mano. Quasi non capisco chi è sceso in campo ma non mi importa. Guardo più in alto e c’è una tribuna vestita a festa, quella delle grandi occasioni. Sento le offese e i cori di scherno, avverto rancore sincero, bisogno di rivalsa covato sotto le ceneri. Mi sembra di scorgere gli occhi iniettati di sangue di chi ci odia come si odiano i figli illegittimi: quelli che hanno indebitamente consumato e monopolizzato le attenzioni dei genitori per anni. Siamo importanti, siamo scomodi. Lo avverto nell’aria, lo sento nei nostri gesti, nei canti di una curva che non smette un attimo di incitare e di spingere con passione e abilità. Siamo cresciuti. Siamo forti e indipendenti, capaci di camminare con le nostre gambe e, di nuovo, consci della nostra forza e della nostra storia. Perdiamo sul campo e forse perderemo il campionato ma non possiamo fare altro che cantare a squarciagola il nostro inno. I versi rimbombano forte nelle orecchie e si disperdono nell’aria, diretti verso chi, magari controvoglia, non può fare a meno di sentirli e rendersi conto di quanto grande rimanga il nostro cuore pur essendo stato spezzato e tradito in modo ignobile.  Questa era la partita che serviva per capire e per prendere coscienza: definitivamente. Oggi chiudiamo i rapporti in modo netto, preciso, indelebile. Un padre sicuramente importante ma troppo ingombrante e padrone che forse solo da qui, sugli spalti del suo circo, potevamo vedere spoglio di tutto con la dovuta obiettività.  Il futuro però non mi fa paura perché me lo immagino tra la mia gente, quella stessa che è venuta fin quaggiù nei pullman o nelle auto, con i tortelli fatti da mamma o prenotando al ristorante per mangiare con gli amici. Quella con il cuore grande come una casa. Siamo tanti e lo saremo ancora di più perché ci meritiamo, questa volta davvero, qualcosa di importante che prima o poi arriverà.

La cassiera mi guarda storta, ho fatto un bel po’ di fila dietro di me. Ricambio lo sguardo e le dico sorridendo “mi scusi ma ho i pantaloni di domenica scorsa”. Chiaramente non ha la minima idea di che cosa stia parlando. La cosa di cui però non avrà mai davvero la minima idea è quello che si è persa a non essere stata, domenica scorsa, insieme a Noi di Grosseto.

Giacomo Spinsanti